Perché Hu si merita tutto

Ho conosciuto Hu — Federica — qualche anno fa, 14 per la precisione. Alle scuole medie cantavamo nel coro di voci bianche: “I ragazzi del 2000”. Alle superiori eravamo in classe insieme, al Liceo Classico “Annibal Caro” di Fermo. Non starò a inventarmi che siamo stati migliori amici o che abbiamo condiviso tutto e blablabla. No. Ci siamo rispettati, un po’ frequentati, come semplici compagni di classe. Si dirà che sono l’ennesimo conoscente del paesello che si spaccia per cugggino lontano, amico fraterno, compagno di vita non appena qualcuno ha un minimo di notorietà. Potete vederla così o continuare a leggere.

Già al primo ascolto di “Neon”, il singolo di esordio di Hu, ho pensato che fosse una mina. È uno di quei pezzi che spacca, che ti spettina, che dici “wow, questa fa sul serio”. E il pensiero che fosse Federica a spettinarmi, mi faceva estremamente piacere. E vi dico perché.

Da quando conosco Hu, la musica è stato decisamente il faro della sua vita. Da quattordici anni a questa parte musica e canto non l’hanno mai abbandonata.

Chi l’ha seguita in questi anni di gavetta l’ha vista cambiare molto. Su ogni palco Federica era diversa. Di anno in anno cambiava musica, formazione, nome…tante volte quanto i tagli di capelli almeno. Eppure non ha mai smesso di credere nel suo sogno. Credere che quello potesse essere il suo mondo, che la facesse star bene e che lì dentro — nella musica come nella scrittura — potesse trovare la sua strada. Se ne è fregata delle risate, degli occhi stralunati, dei giudizi. C’ha semplicemente creduto.

C’è una frase che mi ripeto in testa nei momenti bui, quelli in cui sono stanco, penso di non farcela, ho perso motivazione o mi sembra di star perdendo tempo. Mi dico che i sogni non ci raggiungono mentre siamo lunghi sul divano, ma mentre siamo là fuori, stanchi e sudati che ce li andiamo a prendere. Ecco, io ho stima di Hu perché è una di quelle persone che ha fissato l’obiettivo e ha cominciato a camminare. Non ha importanza quanti passi, quanti ostacoli, quanta stanchezza, quante incazzature abbia trovato o stia trovando sul suo cammino, ma certo non si è fermata.

Un giorno un professore in università definì così la differenza tra l’approccio della Silicon Valley e quello dell’Italia: disse che noi italiani soffriamo della Sindrome del Palio di Siena. La Sindrome del Palio di Siena è quel fenomeno, tutto italiano, per cui non importa se tu non vinci, l’importante è che non vinca il tuo nemico. La competizione tra le contrade del palio di Siena — ciascuna infatti ha notoriamente una rivale — è talmente forte che la tua contrada può non aver vinto il palio (e vabbè) ma cosa più importante è che non abbia vinto la tua rivale. Magari il tuo cavallo non ha nemmeno corso quella mossa, non ha importanza, ma è bene che non vinca la tua rivale. Ecco, la Sindrome del palio di Siena è una competizione malata. Affascinante e spettacolare, ma due volte l’anno in una corsa di cavalli.

Oggi io non voglio cadere in questo tranello e dire che non importa se io non abbia raggiunto i miei di sogni, ma sono felice se Hu abbia raggiunto i suoi. Oggi lei è in corsa per guadagnarsi uno dei dieci posti per il Festival di Sanremo nella sezione Giovani Proposte, magari non sarà il suo sogno, nessuno sa ad oggi come andrà, ma mi riempie di gioia l’idea che lei si senta sulla strada giusta, con un pezzo —  “Occhi Niagara” — che spacca di brutto. Per me, Hu si merita tutto.

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